Il tabù “Patrimoniale”

Due proposte, una sollevata da alcuni deputati Leu e Pd, e l’altra da Beppe Grillo e rilanciata dal Fatto Quotidiano, hanno in questi giorni posto al centro dell’attenzione un tema che alla maggior parte degli italiani appare come un tabù, quello della cosiddetta “Patrimoniale”.
L’imposta patrimoniale in realtà è un’imposta come tutte le altre, colpisce una delle possibili manifestazioni della capacità contributiva – come possono esserlo il reddito o i consumi nel caso dell’iva o i trasferimenti di proprietà – e vedremo tra poco che già esiste nel nostro ordinamento pur se con nomi diversi. Ma allora perché tutto questo isterismo? Una paura inconscia, irrazionale? Un sentimento alimentato ad arte dalle fasce più ricche della popolazione che da questa forma di imposizione risultano più penalizzate, pura e semplice ignoranza, oppure un mix di tutte queste componenti? Tentiamo di scoprirlo ancorando strettamente la nostra analisi a evidenze numeriche, ordinamento tributario e dati statistici.

Prima sorpresa: la patrimoniale già esiste

La Patrimoniale è un’imposta la cui peculiarità è quella di colpire la ricchezza posseduta da un individuo a prescindere dal fatto che essa produca o meno un reddito. Ad esempio, se ho una casa affittata o dei titoli di stato produttivi di interessi, i redditi che ne derivano vengono in entrambi i casi tassati ma anche se non ne traessi alcun reddito l’imposta patrimoniale mi colpirebbe lo stesso per il solo fatto di possedere quella ricchezza, quel patrimonio. Ebbene questo tipo di imposta, seppur con altri nomi, già c’è e si chiama IMU per gli immobili e imposta di bollo per le attività finanziarie:

  • L’IMU colpisce terreni e case con l’esclusione delle prime abitazioni non di lusso e con aliquote differenziate a seconda delle categorie catastali. Il gettito affluisce prevalentemente nelle casse dei comuni italiani;
  • L’imposta di bollo grava in somma fissa sui conti correnti con giacenza superiore ai 5.000 euro e con aliquota proporzionale sui depositi titoli, azioni, fondi di investimento, etc. ad esclusione delle quote di partecipazioni in aziende non quotate e delle polizze vita e con un tetto di imposizione previsto per le persone giuridiche.

Parliamo in entrambi i casi di imposte patrimoniali a regime, nel senso che colpiscono ogni anno (non una tantum) i possessori di ricchezza, assicurando così allo Stato un gettito costante pari circa al 5% del ricavato totale di tutte le imposte. E a quanto ammontano, insomma quanto viene tassato un italiano che ha la fortuna di possedere altre case oltre a quella in cui vive e/o detiene azioni, titoli di stato, obbligazioni o fondi di investimento nel proprio portafoglio?
Per gli immobili l’aliquota varia molto tra macro-aree geografiche e soprattutto tra grandi città e piccoli centri, ma facendo una media calcolata appunto sui valori di mercato (non sulle rendite catastali), si aggira intorno allo 0,5% annuo, mentre per le attività finanziarie investite in titoli, fondi azionari etc. ammonta allo 0,2%. Una seconda casa del valore commerciale di 200.000 euro quindi può costare in media circa 1.000 euro in termini di IMU all’anno, mentre la stessa cifra collocata in fondi di investimento o in azioni quotate in borsa comporta un esborso di soli 400 euro annui per imposta di bollo. Oggi quindi chi detiene ricchezza in prodotti finanziari paga meno della metà di imposta patrimoniale rispetto a chi la investe in beni immobili. Questo è l’assetto che ci deriva dalle riforme del governo Monti che proprio per far fronte alla famosa crisi del debito pubblico tra il 2011 e 2012, da un lato più che raddoppiò il carico dell’IMU, e dall’altro attribuì all’imposta di bollo la natura che ha ora, quella di una vera e propria imposta patrimoniale sulla ricchezza finanziaria.

Ma se la patrimoniale già esiste di quali proposte si sta parlando in questi giorni?

Beppe Grillo e Il Fatto Quotidiano propongono semplicemente di accostare alle imposte patrimoniali a regime esistenti, una patrimoniale una tantum, insomma un contributo straordinario richiesto ai “super ricchi” per contribuire a sostenere le finanze pubbliche in questo periodo di emergenza economica e sanitaria. Esso sarebbe pari al 2% del patrimonio di chi possiede più di 50 milioni di euro (2.700 cittadini circa) e al 3% per chi supera il miliardo (meno di una quarantina)

Alcuni parlamentari di LEU e PD propongono invece proprio di riformare l’intero assetto delle patrimoniali esistenti abolendo Imu e imposta di bollo sulle attività finanziarie per sostituirle con altra imposta patrimoniale che colpisca però solo i patrimoni complessivamente superiori ai 500.000 euro, al netto delle passività finanziarie, con aliquota progressiva minima dello 0,2% per ad arrivare al 2% oltre i 50 milioni di euro.

Entrambe le ipotesi, una per un motivo e una per l’altro, sarebbero dotate di senso in termini redistributivi considerando che siamo un paese con diseguaglianze economiche in aumento e che la nostra imposta di successione, molto più bassa rispetto a quella adottata da altri paesi europei (0.05% del PIL rispetto allo 0.2-0.25% di Germania Spagna e Regno Unito e allo 0.6% della Francia) non contribuisce in alcun modo ad attenuare la sperequazione nella distribuzione della ricchezza ed il consolidarsi dei patrimoni per via ereditaria.
La proposta avanzata da alcuni esponenti di Leu e Pd avrebbe in aggiunta il vantaggio di dare coerenza ed equità complessiva al prelievo patrimoniale che, riunendo Imu e Bollo in un’unica imposta, da una parte sposterebbe il carico fiscale sui grandi patrimoni, e dall’altra ne riequilibrerebbe il peso tra immobili e attività finanziarie che ora è fortemente squilibrato a sfavore dei primi.

Ma se entrambe queste proposte spostano il carico fiscale sui grandi patrimoni perché vengono percepite come “vessatorie” dall’opinione pubblica?

In tutti e due i casi, al di là di ogni altra considerazione o giudizio di fattibilità sul piano economico e finanziario, siamo in presenza di proposte a vocazione incontrovertibilmente popolare tali da rasentare addirittura il populismo. Entrambe infatti in termini puramente economici converrebbero alla stragrande maggioranza degli italiani, non solo alle fasce più deboli della popolazione ma anche alla cosiddetta “classe media”. Ebbene, incredibilmente, ogni volta che si parla anche alla lontana di patrimoniale persino nei termini che abbiamo appena descritto, immancabilmente si provocano diffusi sentimenti di avversione, subito si sente parlare di misure per “colpire i risparmiatori”, o “mettere le mani nelle tasche degli italiani”. Figuriamoci. Italiani dei quali il 30% più povero detiene appena l’1% della ricchezza totale, contro il 75% detenuto dal 30% più ricco. Italiani dei quali quasi uno su cinque abita in case in affitto e tra quelli che vivono in case di proprietà il 19% paga un mutuo. Italiani dei quali nell’ipotesi avanzata da Leu e Pd vedrebbe sostanzialmente aumentare il proprio carico fiscale non più del 10-15% più abbiente. Stupisce – ma tanto – come la propaganda di destra grazie alla stampa amica, complice parte della stampa “nemica” che non coglie minimamente l’occasione di metterne in luce le contraddizioni logiche, e nella più totale ignavia dei canali di informazione pubblica, sia in grado di confondere le acque al punto di cambiare totalmente le carte in tavola.

E allora… che fare?

Si è sentito in questi giorni più di qualcuno sostenere che unico modo per introdurre imposte patrimoniali sia quello di agire di sorpresa, di nascosto, approfittando dall’ormai proverbiale “favore delle tenebre”, evocato in un famoso passaggio televisivo del premier Conte durante il lockdown. Perché invece non fare l’esatto opposto? Cioè perché piuttosto che difendersi o nascondersi, non muovere spavaldamente all’attacco, illuminando a giorno il campo di battaglia in modo da suscitare intorno alla prospettiva di una giusta patrimoniale con funzione redistributiva una vera e propria campagna popolare in cui le persone possano riconoscersi e per la quale magari poter anche scendere in piazza?
Sarebbe tra l’altro uno dei modi per dare corpo ad alcune istanze e agli stessi principi fondativi della Costituzione della nostra Repubblica secondo la quale i cittadini sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva con criteri di progressività. E che – ma questo lo sappiamo veramente tutti – si fonda solennemente sul valore primario del lavoro, non del risparmio (altra cosa dall’accumulazione) che pure incoraggia e tutela, e men che meno sulla proprietà il cui godimento anzi limita “allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”.

Fonti:
– Banca D’Italia, Indagine sui bilanci delle famiglie italiane, marzo 2018;
– I dati sulla disuguaglianza economica in Italia, nel rapporto “Bene pubblico o ricchezza privata?” a cura di Oxfam Italia;
– Ministero dell’Economia e delle Finanze: appendici statistiche al bollettino 218 (dati sulla finanza pubblica per l’anno 2019);
– Istat, Annuario Statistico Italiano 2019